Stavo per scrivere un pensiero sul declino pluriennale di Sassari e della Sardegna in generale, o sullo storytelling cotonato di una Cagliari o di una Regione che crede di essere adulta ma con ancora il ciuccio in bocca, sulla cronica attitudine alla divisione e alla ricerca di un colpevole chiaramente esterno, sull’incredibile talento nell’affidarsi a una politica mediocre e autoreferenziale, sulla necessità di un cambio di visione a lungo termine che porti a un nuovo modello di sviluppo senza vantaggi immediati, sull’urgenza del mettere al centro le competenze, il merito, la fatica e la pazienza nei processi pubblici che devono essere partecipati, sulla tragica connivenza di chi per qualche incarico e vantaggio personale si fa comprare il silenzio e il futuro suo e degli altri.
Stavo per scriverlo come l’ho scritto in questi anni, in decine di post sul blog, sui social, in pubblico, a spiegare come si potrebbe progettare un futuro migliore, più gratificante e intelligente, che punti su un’urbanistica sociale ed economica e non solo tristemente edilizia, che lavori per rendere la Sardegna realmente una comunità accogliente e non un dispenser di esperienze per polli turistici in batteria, che si creino le condizioni per rendere l’ambiente e i territori non presepi immutabili ma vivi e pulsanti motori di innovazione sostenibile, che si investa sulle risorse umane volgarmente detti cittadini che hanno bisogno di sentirsi parte di quella comunità, di essere educati, formati, coccolati, ascoltati e rispettati per creare insieme un mondo condiviso.
Stavo per scrivere che non si abbia paura di cambiare ciò che è sempre stato perché ciò che siamo dimostra che non è stato tutto questo granché.
Stavo per scriverlo, tutto questo, e alla fine l’ho scritto, almeno il sunto, perché non ci riesco a starmi zitto, anche se è inutile, anche se non sono uno di quelli che ha spazio se non in quegli spazi personali che in tanti anni mi sono creato con la rete di relazioni e la reputazione zappata quotidianamente.
Una regione immatura e anche un po’ stupida, che continua a dividersi per frazionare l’ego dei territori fino agli atomi dell’irrilevanza, in un campionato di pulci talvolta ammaestrate che gratifica solo pochissimi e ben pasciuti spettatori.
Una regione che crede di avere una identità per eredità culturale ma è solo somma di egoismi territorialmente distinti, un censimento di differenze che sommate non è identità ma divisione orgogliosa e stupida.
E la colpa non è (solo) della politica, atto finale di un processo degenerato nel demandare ad altri responsabilità di tutti.
La colpa è soprattutto di una cittadinanza poco coraggiosa e umile, poco accogliente, molto presuntuosa e anche incoerente tra i propri comportamenti quotidiani e ciò che sarebbe necessario.
Vedere città, paesi, comunità allo sbando, convinte che lo sviluppo sia una piazza piena di gente con tavolini e birre, che basti un viale dove poter correre, che riscoprire i cammini e come fare il formaggio sia ritrovare un senso della socialità fa sorridere.
Il senso del vivere insieme è un sistema complesso e non basta un approccio estemporaneo, non basta tagliare un nastro o etichettare come sostenibile o esperienziale qualunque baggianata.
Stavo per scrivere un pensiero ma mi è sfuggita la mano, ma tanto, in fondo, non frega nulla a nessuno del futuro.
Viviamo il presente senza farci troppe domande, felici insieme nel nostro inconsapevole gregge.